ESSERE MEDICO

PAOLO SOSSAI – DIRETTORE DI MEDICINA

MD, PhD, AGAF
Medico con contributi significativi alla ricerca scientifica, alla cura dei pazienti, all’amministrazione ospedaliera e alla formazione clinica.

Essere medico e NON fare il medico: questa è la mia sintesi.

Nel libro “Virus intelligenti. La Storia dimenticata”, abbiamo cercato, insieme all’amico e collega Claudio Puoti di sintetizzare nel 14° capitolo cosa sia per noi essere medici.

La Medicina è un’amante esigente che ci permette di distinguerci dai semplici laureati in Medicina. È una esperienza totalizzante nella quale proviamo gioie e dolori profondi.

Recentemente, una giovane studentessa di Medicina ha chiesto a Claudio Puoti cosa significasse per lui essere stato medico per 40 anni e Claudio, da par suo, ha così risposto.

«La medicina è una strada difficilissima, un po’ passione, un po’ missione, un po’ lavoro, un po’ esigente padrona e un po’ innamorata gelosa, che non sopporta di essere tradita né abbandonata. La medicina è un mondo strano, dove incontrerai di tutto: sognatori rivoluzionari ispirati da Che Guevara e da Salvador Allende e avvoltoi avidi di denaro, progressisti sinceri e beceri reazionari, sessisti misogini omofobi e veri democratici avanzati. La medicina è una ininterrotta storia personale di delusioni e sconfitte, di successi e vittorie, è un percorso lastricato di buche e di voragini, che può condurre negli abissi del fallimento umano o sulle vette della realizzazione etica. La medicina è e deve essere una malattia dell’anima, che non trova e non deve trovare terapia, cui abbandonarsi ogni giorno e ogni ora della propria esistenza. Fare davvero il medico significa avere il proprio cuore come il paese più straziato e pieno di croci. O accetti tutto questo, o potrai esibire una mera laurea di dottore in medicina, che è cosa assai diversa».

 

[…] Noi abbiamo vissuto, inoltre, l’epoca degli ultimi “baroni” che hanno fatto la storia della Medicina. Questi baroni da una parte assomigliavano molto a dei despoti, ma dall’altra, con le loro capacità, avevano fondato delle vere e proprie scuole di pensiero.

Sì, pensiero, perché la diagnostica era fortemente limitata sia come laboratorio sia come indagini strumentali, per cui era necessario utilizzare meglio tutti i nostri sensi, al fine di carpire al “malato” le informazioni necessarie per poi passarle al vaglio dei neuroni della corteccia cerebrale del medico, dove queste venivano mediate dalle esperienze cliniche sviluppate sul campo!

[…] Se con gli avanzamenti tecnologici riusciamo ora, e ancor di più in futuro, a fare diagnosi più tempestive e a intervenire nelle dimensioni più microscopiche della Vita, dall’altra abbiamo perso l’acuità dei nostri sensi nel percepire le variazioni di un colorito cutaneo, di un’andatura sfumatamente atassica e altro ancora e, soprattutto, la capacità critica.

Capacità critica che spesso lascia il posto al totale affidamento all’esame o al dato di laboratorio. Infatti pensare costa impegno e anche fatica, quell’impegno e fatica che rendono la Medicina una «esigente padrona e un po’ innamorata gelosa».

[…] La nostra formazione è stata permeata da una visione paternalistica in cui il medico era il depositario della conoscenza grazie alla quale era in grado di decidere il meglio per i pazienti i quali, in una corsia di ospedale, venivano segnalati con il numero di letto.

Ora il paradigma si è capovolto e da qui nasce una medicina detta “difensiva”, in cui il medico svolge la sua attività avendo come riferimento il non essere inghiottito in procedimenti giudiziari, generalmente condotti da parenti che talora raramente o mai si sono visti al capezzale dei malati.

Nella mia Università ho avuto la fortuna di avere, tra i primi in Italia, un insegnamento di Bioetica tenuto da Sandro Spinsanti che ci fece conoscere, leggendone gli scritti, personaggi del calibro di Susan Sontag e Elizabeth Kubler-Ross: personaggi che erano ancora poco conosciuti in Italia se non negli ambiti più specialistici del settore e che ci hanno aiutato a conoscere quella scienza tanatologica che si stava sviluppando.

La morte e il suo significato sono il problema primo che ogni uomo e ancor di più ogni medico devono affrontare: la morte dei propri cari, dei propri pazienti e infine la propria morte costituiscono elemento centrale di ogni esistenza.

Nietzsche scriveva che quando ci colpisce un male, e la morte lo è per noi, ci sono due modi di affrontarlo: eliminandone la causa (e per la morte non è possibile) o modificando l’effetto che questo male esercita su di noi per poter sopravvivere.

[…] Perché insistere su questo tema?

Perché per tutti noi, ma soprattutto per coloro che si imbatteranno più frequentemente con la morte, e cioè i medici, prendere consapevolezza della morte significa diventare più resilienti.

[…] Infine, lasciatemi concludere con un concetto di cui sono fortemente convinto e che lascio in eredità a chi viene e verrà dopo di noi: considerate la Medicina un’arte che si avvale della scienza ma che non è solo scienza!

L’intuizione di un segno, la percezione di una paura, la considerazione di un vissuto, il saper accompagnare un paziente e la compassione fanno di un laureato in Medicina un medico e non un semplice gestore di tecnologie.

 [Tratto da “Virus intelligenti. La Storia dimenticata”, Sossai, Puoti, Castori – Armando Curcio Editore, 2021]

HAI BISOGNO DI UN CONSULTO ?

Attraverso il sito internet o l’app ZOOM potrai facilmente parlare con me dove e quando è più comodo per te